"USA, i videogames sono già in crisi?" (L'Unità, 22 dicembre 1983)

di Andrea Pachetti

L'articolo del 1983 che presentiamo oggi risulta simile, nei toni, a ciò che scrisse Giampaolo Dossena su Tuttolibri: ancora una volta ci riferisce agli echi che giungevano dagli Stati Uniti, in merito a una crisi del settore dei videogiochi a causa dei problemi di Atari, leader incontrastata del mercato di allora.

Nel caso dell'articolo di Romana Torossi si scende comunque in considerazioni economiche particolari, andando a toccare dei punti importanti, come le strategie di "fuga" e delocalizzazione, che erano assenti nel pezzo di Dossena. Nonostante alcune imprecisioni dovute probabilmente a informazioni errate, il testo merita di essere archiviato e studiato per cogliere i rimandi al "videogame crash" di Atari, che non ebbe conseguenze dirette sulle tendenze commerciali nel nostro Paese e che viene in questo senso spesso citato a sproposito.

Tra le imprecisioni, una su tutte: Atari, Commodore e Apple non erano certo nella stessa fascia di prezzo, soprattutto in riferimento agli home computer sotto i duecento dollari. La crisi del settore "home" di Texas Instruments si avviò principalmente a causa della guerra dei prezzi intrapresa dell'allora CEO di Commodore, Jack Tramiel, coi frequenti ribassi del VIC-20 a mettere di volta in volta in crisi le vendite del TI-99/4A, che doveva sempre "inseguire" il concorrente.

USA, i videogames sono già in crisi?

GIOCHI - Un passivo da 700 miliardi per l'impresa-leader, l'Atari; 1500 sale di ritrovo chiuse: ecco, in cifre, la malattia della "cosiddetta industria del futuro". L'accusa: scarsa fantasia, costi eccessivi, troppo ottimismo.

NEW YORK - Che succede all'America fino a ieri incollata davanti allo schermo dei videogames? La popolarità del gioco elettronico è in rapido declino: mentre l'Atari e la Coleco, regine del videogioco, accusano perdite gigantesche, molte aziende minori sono state letteralmente spazzate via dal mercato e i negozianti lamentano grossi quantitativi di materiale invenduto. I bambini sembrano stanchi di inserire le cassette di "Pacman" o di "Donkey Kong" nell'apparecchio collegato al televisore di casa, e i teenagers che di solito affollano le "arcades" - vere e proprie sale da gioco per appassionati di videogames - ora ci pensano due volte prima di infilare la monetina per far fuori gli ennesimi invasori spaziali. Questi popolari ritrovi erano oltre diecimila fino all'anno scorso, ma quest'anno millecinquecento locali hanno chiuso, i profitti del settore sono calati del 75 per cento.

Il mercato è saturo, dicono gli esperti, i giochi si assomigliano tutti l'uno all'altro. Non basta la sofisticata animazione, il ritornello accattivante di un Popeye elettronico, l'illusione di disintegrare i missili nemici coll'immaginario raggio laser. Mancano idee, non si riesce a trovare un nuovo personaggio che sostituisca i vecchi "divi": la gente semplicemente si annoia.

Questo non succede certo perché il consumo dei videogiochi non sia ben pubblicizzato - ben quindici milioni di apparecchi per videogames sono stati venduti finora in altrettante case americane. Solo poco tempo fa l'industria era sicura che il videogame sarebbe diventato il compagno inseparabile dei bambini e sperava che ogni famiglia in America avrebbe sentito il bisogno urgente e irresistibile dell'apparecchio Atari o Coleco in casa. L'industria quindi, entusiasmata dai rapidi successi dei primi tempi, ha aperto uffici e fabbriche, impiegando decine di migliaia di persone. Ma le previsioni si sono rivelate troppo ottimistiche: il mercato si è stabilizzato su una certa fascia di consumatori, mentre una larga fetta di americani non si può permettere di spendere 150-200 dollari per avere lo "svago elettronico" in salotto.

Le perdite registrate quest'anno dal settore sono state enormi. Molte piccole industrie sono state fagocitate dalla crisi e quelle ancora a galla corrono ai ripari adottando la politica della "fuga", come del resto succede in molti altri settori dell'industria americana. Per restare competitive ed abbassare i prezzi trasferiscono le loro operazioni all'estero: le isole dei Caraibi, il Centro America, l'Asia, dove la manodopera costa pochissimo e l'industria americana è virtualmente esente da tasse.

L'Atari, all'avanguardia nella produzione di computer e videogames e fino a ieri considerato simbolo del futuro, ha subito quest'anno perdite per 425 milioni di dollari. Partita modestamente nel 1972, dieci anni dopo l'azienda controllava il sessanta per cento del mercato, con vendite complessive oltre i due miliardi di dollari. Ma il boom è finito e l'Atari ha ridotto il suo staff dirigenziale e licenziato quattromila suoi lavoratori nello stabilimento di Silicon Valley in California, trasferendo le sue operazioni a Hong Kong e Taiwan.

Che i bambini abbandonino i videogames per tornare a giocare a pallone è ancora comprensibile, anche se non accettabile, per gli "esperti" che immaginavano la famiglia media americana avviata verso un futuro tutto elettronico. Il vero panico è iniziato quando è entrato in crisi anche il settore degli «home-computers», con cui si possono fare operazioni in banca o lo shopping via cavo al supermercato senza dover uscire affatto dalla linda casetta suburbana.

La prestigiosa Texas Instruments ha addirittura deciso di chiudere il suo settore di "home-computers" dopo aver registrato un deficit di 230 milioni di dollari prima ancora della fine di quest'anno. I suoi modelli economici, molto usati nelle scuole perché dotati di un "linguaggio" particolarmente adatto ai bambini entrarono immediatamente in competizione con Atari, Commodore e Apple che producono apparecchi dalle prestazioni limitate ma offrono un prezzo inferiore ai duecento dollari. Ma la competizione ha ucciso la Texas Instruments che si è ritirata dal settore insieme a molte altre aziende minori.

Anche in questo caso, probabilmente, c'era stato un eccessivo ottimismo rispetto all'effettiva richiesta del pubblico. Un altro importante fattore è che coloro che usano seriamente l'«home-computer» richiedono un prodotto più sofisticato di quelli attualmente disponibili a poco prezzo. Suscita infatti molta attesa l'imminente entrata in commercio del nuovo «Personal Computer jr.» della I.B.M. e dell'«Adam» prodotto dalla Coleco, due apparecchi che saranno venduti a prezzi considerevolmente più alti (intorno ai 700 dollari) ma che garantiscono una maggiore versatilità nella programmazione e nell'uso.

Romana Torossi

Commenti

  1. Ironia della sorte in quella stessa pagina nella copia origina de L'Unità c'è in alto a destra la pubblicità del dizionario Zingarelli col seguento testo "Videogioco. Sullo Zingarelli c'è. Su altri no. Videogioco è una delle 9.000 parole nuove che potete trovare tra i 127.000 vocaboli del Nuovo Zingarelli.[...]". https://archivio.unita.news/assets/derived/1983/12/22/issue_full.pdf

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    1. Hai assolutamente ragione, Fabrizio! Avevo dimenticato questo riferimento perché avevo "ritagliato" l'articolo molto tempo fa; appena posso accludo anche questa pubblicità in calce al testo, perché mi sembra un riferimento terminologico piuttosto interessante, grazie per avermelo segnalato!

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