di Andrea Pachetti
I finalisti del primo Imagic Match su Antenna 3. Tratto da Videogiochi n. 14, fonte: Retroedicola |
Dopo aver commentato, assieme a Francesco Carlà, l'evoluzione delle riviste di videogiochi e dei programmi televisivi a tema nel nostro Paese durante gli anni Ottanta, riteniamo altrettanto interessante indagare adesso sui distributori, cioè le aziende che hanno permesso al pubblico italiano di fruire dei prodotti sviluppati negli Stati Uniti durante il primo effettivo "boom", quello che si è poi chiuso bruscamente con il "videogame crash del 1983".
Questo è il mercato in cui fiorirono le prime software house indipendenti, cioè aziende esterne ai principali produttori di hardware e che si occupavano di produrre esclusivamente videogiochi. Se Activision è un nome che risulta ancora familiare ai più, pur nelle sue varie incarnazioni, l'Imagic risulta invece essere semi-dimenticata, sebbene sia stata per un certo periodo uno dei third parties più importanti sul territorio americano e il secondo per fatturato proprio dopo Activision.
Seguendo la strada tracciata dalla casa di David Crane e compagni, anche la Imagic fu creata da persone che avevano lavorato in precedenza per delle major: Bill Grubb (presidente) e Dennis Koble provenivano da Atari, Brian Dougherty e James Goldberger da Mattel. Anche il principale game designer, Rob Fulop, era cresciuto in Atari, sviluppando giochi come Night Driver e Missile Command, prima di arrivare all'enorme successo personale di Demon Attack.
La Imagic è emblematica di tale momento storico, poiché ha la sua espansione durante il periodo di massimo successo dei giochi per console: la presentazione dei primi tre videogame per VCS (Demon Attack, Star Voyager e Trick Shot) avvenne al CES del gennaio 1982, e già furono pianificati altri sette prodotti (tra cui alcuni per Intellivision) in tempo per l'edizione di giugno.
Il disastro economico relativo al periodo natalizio di quell'anno dovuto a una molteplicità di fattori, tra cui la saturazione del mercato operata da Atari e il deprezzamento medio delle cartucce, portarono poi la Imagic verso una grave crisi. Alla fine, la software house tentò di rilanciarsi completamente nel 1984, con la nuova presidenza di Bruce L. Davis, in veste di mero sviluppatore (e non più produttore) di videogiochi per home computer, con particolare attenzione al Commodore 64 e all'Apple II.
Certamente, a oggi, rimane comunque il fascino per una serie di prodotti particolarmente curati, sia dal punto di vista del gameplay che da quello del design. L'Imagic è stata anche una delle prime aziende di software gioco a comprendere l'importanza dei mercati internazionali, visti i problemi che si erano venuti a creare localmente.
In un articolo del marzo 1983, a cura di Michael Schrage, Stan Peters (direttore Imagic per vendite) dichiarava che la loro idea era quella di un'azienda mondiale: senza questo tipo di visione sarebbe venuta a mancare l'economia di scala per continuare a rimanere competitivi. Nonostante fossero presenti da appena un anno, riuscivano già a vendere i loro giochi in 40 diversi paesi, grazie a un network di distributori indipendenti. «Quest'anno avremo un incremento nelle vendite di dieci volte», diceva entusiasta al Washington Post.
Tratto da Computer Games n. 3, fonte: Retroedicola |
In Italia abbiamo avuto la possibilità di giocare con le cartucce della Imagic sin dalla fine del 1982 grazie all'Audist di Flavio Fellah, con cui abbiamo avuto la possibilità di conversare via e-mail. La prima presentazione dell'azienda avvenne al SIM di settembre, con sette giochi per Atari VCS: Demon Attack, Star Voyager, Riddle of the Sphinx, Cosmic Ark, Atlantis, Fire Fighter e Trick Shot.
Riteniamo che quanto emerso sia molto interessante, per poter comprendere le scelte operate in un mercato completamente diverso da quello attuale. Buona lettura.
Nei primissimi anni Ottanta il mercato dei videogiochi in Italia si stava appena formando, per cui le prime aziende che si occuparono della distribuzione di videogiochi provenivano da esperienze diverse, dalle radio all'elettronica, dai dischi all'alta fedeltà: c'era la Melchioni con l'Atari, la GBC e poche altre. Mi piacerebbe dunque comprendere in che momento l'Audist si interessò al mercato dei videogiochi e perché: se ho ben capito, il core business della sua azienda era appunto l'hi-fi.
Il motivo per il quale decisi di affiancare alla distribuzione di prodotti hi-fi quella di videogiochi è che il settore alta fedeltà non era più in crescita come nel passato e non risultava più il monopolista degli interessi nell'elettronica di consumo. Nuove categorie di prodotto diventavano importanti (per esempio video e computer), ma quello che ritenevo avesse il maggior potenziale di crescita era appunto quello dei videogiochi.
Non le nascondo che nelle scelte mi sono sempre fatto influenzare anche da statistiche basate su un campione di una sola persona... In altre parole mi piaceva trattare prodotti nei quali credevo e che mi entusiasmassero, ed ero un appassionato di videogiochi (sorriso).
Mentre la Melchioni (allora concessionaria Atari) importava anche la console, l'Audist risulta essere una delle primissime aziende italiane a occuparsi esclusivamente di cartucce per videogiochi, assieme alla Miwa Trading (Activision).
Come lei ha correttamente indicato, le aziende in generale erano poche, almeno per quanto riguarda i videogiochi in formato cartuccia: questo formato era l'unico a non avere i problemi di pirateria, che affliggevano invece i videogiochi registrati su cassetta per i primi personal computer di allora, sprovvisti di protezione dalle copie.
Ai nomi citati andrebbero aggiunti come produttori di basi Mattel, molto forte nel settore giocattoli e di grande successo con Intellivision, Colecovision anch'essa di successo e Philips che invece non ne ebbe granché.
Mi piacerebbe capire in che modo potevano essere gestiti i rapporti con una società americana nell'epoca pre-internet, cioè in che modo vi eravate accordati con la Imagic per la distribuzione delle sue cartucce.
I rapporti venivano creati e poi gestiti personalmente, spesso a partire da incontri in occasione di manifestazioni quali il CES, come avvenne proprio nel caso di Imagic.
Ricorda qualche personaggio in particolare con cui era entrato in contatto per l'importazione dei videogiochi?
Sì, ricordo: si trattava di Stan Peters, il direttore per le vendite internazionali.
I giochi vi venivano spediti dagli Stati Uniti oppure in parte venivano assemblati anche localmente?
Grazie alle ridotte dimensioni le cartucce potevano venire spedite dagli Stati Uniti per via aerea e non vi era ragione di assemblare i videogiochi in Italia.
Quali erano i canali distributivi che usavate per la commercializzazione delle cartucce? La Imagic iniziò soprattutto producendo cartucce per l'Atari VCS e il Mattel Intellivision, poi si spostò anche sui vari home computer, come il VIC 20. Si ricorda quali furono i bestseller, cioè cosa funzionò meglio sul mercato italiano?
I programmatori di allora erano "geni" che riuscivano a scrivere giochi con una grafica per allora eccellente e meccanismi di gioco ragionevoli, nonostante i pochi Kbyte di memoria a disposizione, scrivendo in linguaggio macchina con tecniche ricorsive.
Alcuni dei titoli di grande successo furono Dracula per Intellivision e Demon Attack che, come la maggior parte dei giochi Imagic, era disponibile per varie basi.
Per la distribuzione abbiamo operato in tutti e tre canali che erano importanti allora, con reti agenti separate: direttamente per quanto riguarda l'elettronica di consumo, direttamente nel settore giocattoli e tramite un accordo strategico di distribuzione con Messaggerie Musicali anche nelle librerie.
Quindi distribuivate videogiochi sia per console che per computer?
Sì, distribuivamo l'intera offerta di prodotti Imagic su canali diversificati, come dicevo in precedenza. Avevamo per esempio "soffiato" due personaggi da Melchioni, nostra concorrente di allora.
Alfio Barbieri, il vincitore del primo Imagic Match. Tratto da Videogiochi n. 14, fonte: Retroedicola |
Avete avuto una collaborazione continuativa con la rivista Videogiochi della Jackson, con gare e pubblicazioni di record, il cosiddetto Imagic Match. Ci fu anche una trasmissione televisiva sulla rete Antenna 3 (allora appartentente al circuito Euro TV), in cui i giovani giocatori si sfidarono sui vari giochi Imagic.
Quanto ricorda relativamente a Jackson e al concorso è esatto, la rivista era il contenitore principale e la televisione era un modo per dare importanza al concorso stesso.
Tenga presente che a quel tempo il mercato dei giocattoli era molto importante ed economicamente molto più sano di quello dell'elettronica. Inoltre esistevano innumerevoli rivenditori indipendenti non ancora del tutto asserviti nelle loro scelte di prodotto al meccanismo della pubblicità a basso costo rivolta ai bambini tramite le tv private.
Sembra, leggendo le pagine di Videogiochi, che il secondo Imagic Match non si sia mai concluso...
È possibile che lei ne sappia anche più di quanto io ricordi (sorriso) Per il secondo concorso, che come lei ha indicato non si è svolto, avevamo messo in palio un robot Androbot che distribuivamo.
Si trattava di un robot pilotato da un computer Apple per il quale siamo andati anche in prima serata sul primo canale della RAI, ma che era necessariamente molto limitato ed ha avuto poco successo commerciale. Ma che era programmabile ed efficace nell'attrarre l'attenzione anche in alcuni punti vendita.
Topo venne anche utilizzato per la trasmissione Chip, giusto? Fu poi "ospite" anche in Pronto Raffaella, con la Carrà.
Sì, e l'unica cosa che posso aggiungere su Topo di Androbot, oltre agli eventi da lei rintracciati, è che siamo stati presenti in televisione in un programma di grande visibilità presentato da Enrica Bonaccorti, di cui adesso purtroppo non ricordo il nome.
L'Audist con Imagic era impegnata a promuoversi nelle varie fiere di settore. Con che tipo di pubblico entravate in contatto?
Si, partecipavamo regolarmente al SIM di Milano. Il pubblico era composto di giovani ma anche meno giovani, in linea con quanto accade anche oggi.
Se possibile, infine, può fornire un cenno su come andarono le cose alla fine? Intendo, quando la Audist decise di porre fine a questo tipo di importazioni?
Come saprà il settore videogiochi negli USA fu soggetto ad una incredibile follia, con previsioni di vendita e budget stellari, che portarono poi allo scoppio della bolla. In poche parole gli americani pagarono fallendo e lasciando del tutto sguarnito un mercato enorme che, dopo qualche tempo, sarebbe passato ai giapponesi.
Riferimenti bibliografici:
(omissis, chiedere in privato via e-mail)
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