"Videogiochi, sì o no?" (L'Unità, 7 agosto 1985)

di Andrea Pachetti


Ancora una volta ci poniamo di fronte a uno degli interrogativi tipici della prima parte degli anni Ottanta, e cioè se i videogiochi facessero "bene o male" ai ragazzi. Nello stesso periodo in cui è stato pubblicato questo articolo, se ne occupava ad esempio la rivista EG Computer: sul numero uscito nel giugno del 1985 infatti ci si chiedeva se il videogioco potesse effettivamente danneggiare i giovani, interrogando a riguardo un oculista, un neurologo e uno psicologo.

In questo speciale "Tecnologia & Tempo libero" curato da Vera Paggi, la richiesta si estendeva invece anche ad altri tipi di professionisti: nove persone che possono essere inserite in tre gruppi, tendenti rispettivamente alla tecnologia, alle scienze umane e all'arte. Curiosamente, anche in questo caso non venne richiesta l'opinione di nessuno che si occupasse in prima persona dell'argomento, cioè progettisti e distributori di videogiochi.

Le persone che lavoravano nel settore tecnologico, Marisa Bellisario (dirigente industriale), Simone Fubini (dirigente industriale) e il già citato in precedenza G. Battista Gerace (docente d'informatica), si dimostravano possibilisti e facevano notare come i videogiochi potessero essere interessanti e rappresentare un primo passo verso la comprensione dell'informatica e della programmazione.

Diversa l'opinione di Massimo Bonfantini (semiotico e filosofo); Cesare Musatti (psicoanalista) e Fulvio Papi (filosofo); complice una conoscenza limitata dell'argomento si faceva cenno o al loro consumo rapido o alla capacità di isolare l'individuo, quando nel 1985 l'offerta videoludica non era certo limitata né alle macchine "mangia-soldi" dei bar, né tantomeno alle esperienze single player.

Infine chi si occupava di arte e design, come Guido Crepax (disegnatore), Bruno Munari (designer) e Maurizio Nichetti (regista), poneva l'accento sulla teorica mancanza di creatività e fantasia legata all'uso del videogioco, tesi ampiamente smentita e superata negli anni successivi.

In ogni caso, a prescindere dai singoli giudizi, questi estratti rappresentano degnamente uno spaccato delle tipiche prese di posizione degli adulti dell'epoca, che la Paggi riassumeva efficacemente affermando che: «nella diversità delle risposte emerge un denominatore comune: il contatto occasionale o decisamente nullo di almeno tre generazioni con i videogiochi (...) Il videogioco, invece, è proprio dell'ultima generazione, quella dei dodicenni».


Marisa Bellisario


I videogiochi sono sia un surrogato elettronico di vecchi passatempi sia qualcosa di nuovo. Da una parte infatti sono una nuova versione tecnologica e sofisticata di giochi come battaglia navale e calcetto. Dall'altra parte, se i personal computer, con i quali i ragazzi giocano, vengono utilizzati in modo intelligente e creativo, possono consentire loro di inventare nuovi giochi sviluppando logica e creatività, oltre a familiarizzare con l'elettronica. Sono una occasione di crescita intellettiva: i ragazzi devono infatti studiare i manuali per impadronirsi dei primi elementi del linguaggio basic e imparare a ragionare con le regole del computer. I videogiochi rappresentano il primissimo gradino verso l'informatizzazione della società, dato che nelle scuole l'informatica sta ancora entrando troppo lentamente.

Simone Fubini


Se i videogiochi sono creativi? Forse dovrei domandarlo ai miei nipoti. Sicuramente sono stati una spinta per alcuni giovani ad occuparsi di informatica, uno stimolo per imparare il linguaggio del computer e per programmarlo. Secondo me due sono le considerazioni: la prima di tipo meccanicistico che ha visto il videogioco come stimolo tecnologico alla realizzazione del personal computer; l'altra, culturale, parte dal presupposto che lo svago è una necessità fondamentale dell'uomo e in questo senso la scoperta del videogioco ha messo in contatto molti individui con l'elettronica prima, e successivamente a un livello più approfondito, con l'informatica. Lo schema tecnologico che dal videogioco passando per l'home computer ha portato al personal è servito soprattutto a quei giovani che non si sono limitati a schiacciare bottoni.

G. Battista Gerace


I videogiochi sono molto diversi fra loro (premetto che non sono un esperto ma un osservatore): alcuni cercano di stimolare la capacità del ragazzo a reagire a certi fenomeni, definiscono la rapidità di reazione portandola al parossismo nei casi in cui richiedono una sempre maggiore velocità d'intervento su un dato schema. Ci sono altri videogiochi, invece, più intelligenti. Cosa sono? Un modo per risolvere dei problemi, dei fatti, creando un rapporto fra calcolatore, fra video e giovane. Sono calcolatori speciali, microcalcolatori, e in questo caso il modo come si succedono i fatti e il dialogo tra l'operatore e il video si avvicina all'algoritmo. Questi videogiochi, a diversi livelli interattivi, aiutano a capire come si risolvono i problemi; sono, insomma, una sorta di apprentissage dell'uso del calcolatore.


Massimo Bonfantini


I videogiochi sono macchine mangiasoldi. Come tali, come programmi-merce programmati per un consumo rapido e sempre rinnovato, devono incuriosire e avvincere un po', ma non devono divertire e appassionare. Devono anzi presto venire a noia perché il consumatore cerchi sul mercato qualcosa d'altro, che a sua volta lo prenda, lo assorba per un certo lasso di tempo, e così via. I videogiochi esercitano attrattive simili a quelle degli esercizi di destrezza a imparare, dei rebus da risolvere, dei libri gialli da leggere. Il piacere è quasi sempre meno intenso. Ma l'esecuzione del programma imposto può essere ripetuta qualche volta di più. Il programma è più banale ma il giocatore è dentro il programma. Può fingersi attore. Attore ma non regista. Nei grandi giochi, invece, che perciò non sono "passatempi" ma spreco o riempimento del tempo, il bello è proprio l'invenzione del programma ad ogni partita.

Cesare Musatti


Cento anni fa i bambini giocavano con i trenini, oggi ci sono i videogiochi. Senz'altro il progresso tecnologico ha prodotto situazioni con carattere di gioco e penso allo scienziato che fa un po' la stessa operazione quando utilizza il computer per esercitarsi. Certo il discorso è complesso e degno di approfondimento e sarebbe interessante vedere come, con il progredire della tecnologia, è andato modificandosi il gioco dei bambini. Loro sono molto più rapidi degli adulti nell'apprendimento e con queste macchinette non sono secondi a nessuno. C'è un pericolo, però, che a questo livello il computer rimanga solo un passatempo. Invenzioni come il gioco degli scacchi col computer non voglio giudicare se siano positive o negative, ma io che sono un appassionato degli scacchi preferisco di gran lunga avere davanti un amico in carne ed ossa che qualcuna di quelle macchinette.

Fulvio Papi


Nel videogioco, che impegna un singolo individuo, c'è a mio parere un elemento pericoloso, quello della solitudine operativa, della continua gara con se stessi, in funzione di un'esclusiva capacità di destrezza. In questo schema la creatività è assai scarsa, perché le combinazioni sono già date e il rapporto con la macchina diventa di tipo robotico. Lo scambio che nel gioco competitivo fra due o più persone stimola un rapporto comunicativo, sociale, nei videogames è assente. Certo non è possibile applicare una scelta di valori al divertimento: ci sono persone che si divertono ascoltando certa musica che io giudicherei repellente. Ma il divertimento indotto dai videogiochi è sterile, astratto. In questa gara con se stessi non esistono elementi collettivi, di scambio, in cui il divertimento si trasmette da una persona all'altra. Personalmente dunque non ho per essi alcuna simpatia.


Guido Crepax


Avevo un videogioco, quello del tennis, ma poi me l'hanno rubato. Non è stata una grave perdita perché continuo a giocare lo stesso. Però gioco con le battaglie che disegno io e le preferisco di gran lunga ai videogiochi. Anche i miei figli sono cresciuti alla mia "scuola", naturalmente senza tralasciare il geniale Monopoli, ma le battaglie storiche che ho disegnato sono più fantasiose, stimolano l'uso della tattica e nello stesso tempo insegnano la storia. Il mio giudizio sui videogiochi non può che essere parziale e negativo. Hanno il difetto della macchina e non stimolano l'immaginazione. Sono belli, graficamente ben congegnati, sono anche sofisticati ma privilegiano la sfida, la prontezza di riflessi e penalizzano l'immaginazione. Credo che continuerò a disegnare giochi per me e per i miei amici.

Bruno Munari


Ci sono poeti che hanno scritto poesie con un mozzicone di matita che qualcuno gli aveva prestato. L'aspetto creativo di questo problema potrebbe essere, invece, quello di dare ai bambini dei componenti elettronici già programmati perché possano combinare, come dire, possibilità combinatorie. Quando il bambino gioca con la palla nessuno gli ha spiegato cos'è l'elasticità o qual è l'effetto del rimbalzo su una data superficie, ma lui lo impara usandola; la butta a terra e capisce a cosa serve. Il rapporto con i componenti elettronici diventa creativo se è utilizzato in questo senso. Per esempio, utilizzando i "sensori", i bambini possono costruire apparecchi che, stimolati dalla luce, dal calore o dal rumore, emettono dei segnali. In questo caso la comprensione di quello che è avvenuto sarebbe un effetto della loro manipolazione. Nel videogioco, invece, il rapporto del bambino con quel dato schema è sempre passivo.

Maurizio Nichetti


Non definirei creativo il videogioco: l'elemento meccanico è quello prevalente e ne vincola l'uso; naturalmente sviluppa accostamenti analogici ma in qualche modo obbligatori, di riflesso. Mi sembra più uno sviluppo del flipper, o comunque un'evoluzione del gioco di destrezza. Senza dubbio il contatto con l'immagine videografica, e penso al computer come probabile approdo del videogioco, alla lunga modifica il linguaggio e quindi può essere uno stimolo creativo. C'è poi la considerazione che a una certa età il cervello è più elastico e i ragazzi sono senz'altro avvantaggiati. Ma è anche un vantaggio "di tempo" che hanno sugli adulti: loro possono restarci giornate intere, mentre noi, dopo un'ora di tentativi falliti, torniamo a lavorare.


Commenti

  1. Notevole lavoro, come sempre. Un articolo che ben rappresenta lo spaccato della società dell'epoca. Sono un classe 72 e quindi ero perfettamente il target nella trattazione dell'argomento. Uno di quei dodicenni ero io! Come molti miei coetanei posso confermare che siamo stati la prima generazione videoludica in assoluto e come tale siamo cresciuti tra lo scherno e la derisione di quelle precedenti. Adesso che i videogiochi sono una realtà milionaria profondamente radicata nel nostro modo di essere, posso dire di avere, nel mio piccolo, contribuito anch'io. Perlomeno oggi mia figlia non deve sopportare battutine e allusioni a ritardi mentali quando decide di giocare a Super Mario. Bene così.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. La cosa più curiosa, secondo me, è che quello che veniva pubblicizzato negli anni Settanta in Italia come un passatempo per adulti e giovani, ma non bambini (tipo i primi Pong, o il Channel F) sia poi diventato così caratterizzante solo nei confronti di quei ragazzini che potremmo tranquillamente definire "generazione Atari", che coi videogiochi sono invece nati e cresciuti.

      Elimina

Posta un commento